Il fluire dei pensieri di Marghe è uguale al mio, mentre seguo in tv la diretta del processo a Mubarak, ai suoi figli e ad Habib el Adly. La confusione del tribunale che ti fa sorridere, la mimica corporale di Mubarak steso in barella ma non domo, col braccio dietro la testa alla ricerca della posizione più comoda, con quel dito nel naso ripreso dalle telecamere più volte, impietosamente, nei momenti in cui riescono a penetrare la barriera formata dai due figli, in piedi accanto a lui per tutto il processo, a proteggerlo.
Concentrarsi sui particolari per difendersi dalle emozioni – dalla commozione, anche – che senti nel contemplare l’incredibile, il momento storico che non credevi di poter vedere mai, l’arroganza del potere nella polvere e scoprire – ma in fondo lo sapevi già – che preferisci concentrarti sulla faccia di Gamal, l’anima nera a cui il padre avrebbe consegnato l’Egitto, perché nello sguardo dell’ex Raiss percepisci qualcosa che ti tocca a un livello più profondo e hai bisogno che la razionalità faccia da sentinella.
La caduta di un potente, da vecchio, non è un bello spettacolo. Uccidere il padre è necessario ma non per questo poco doloroso. Sentire snocciolare i capi d’accusa, dopo un po’, dà sollievo, ti riporta alla realtà. E alla giustizia. E all’orgoglio per questo paese che, davanti ai tuoi occhi, mostra all’intero mondo arabo un dittatore processato davanti a una corte civile, normale, con tutte le garanzie previste dalla legge, per dei reati previsti – semplicemente – dal codice penale. La semplicità sa essere dirompente.
Julia mi scrive che un suo alunno le ha appena mandato un messaggio: “Se lo merita, Mubarak, ma che pena vederlo così.” Lo so. “Concentrati su tutti quei morti“, mi dice lei.
Ed è che forse è troppo semplice, così. Bello, per carità: un processo impeccabile, un esempio di equilibrio e di giustizia uguale per tutti.
Senti il rischio di una pericolosa banalizzazione, però. Di una catarsi superficiale, di un immenso non detto che rischia di finire ricacciato sotto il tappeto, sotto la foglia di fico delle semplici leggi infrante da chi è dietro quelle sbarre e non da un sistema intero. Il rischio che il paese non elabori quello che è successo e che, di tutto questo, rimanga una soddisfazione fragile e una sorta di senso di colpa inespresso.
Sono andata a cercarmi in rete le parole per dirlo, per spiegare quest’ultima sensazione confusa, e ho trovato questa frase abbastanza ironica, se rapportata a questo momento dell’Egitto:
In Dostoevskij albergava, invece, solo un senso di colpa gigantesco per la tendenza umana al parricidio. È da questo senso di colpa che, secondo Freud, nascerebbero le religioni, per cui, il Complesso di Edipo, non è altro che la vera fonte della religione.
Già dalle primissime interviste mandate in onda da AJE ieri, appena conclusa la diretta, si è parlato del rischio che un processo così apparentemente democratico si risolvesse in un panem et circenses destinato a lasciare troppi nodi intatti.
E cosa fare, allora? La gettonatissima opzione sudafricana emersa dalle prime interviste, con relativa Commissione per la Verità e la Riconciliazione all’egiziana? Percorsi cileni, lavori come l’argentino “Nunca más” prima delle amnistie? Non è una questione di facile soluzione. Di sicuro, al momento, processare il dittatore rischia di diventare un modo per non processare la dittatura.
E per non guardarsi dentro, tutti quanti.
[Edit: l’altra faccia della medaglia è in questo notevolissimo post di Hossam el Hamalawy, Arabawy.]
Ottimo pezzo, i tuoi dubbi sono sensati e condivisibili.
Cosa accadrebbe nel belpaese italiano, se si celebrasse un immaginario, simmetrico processo al “rais” Silvio Berlusconi ?
(catartica isteria di massa + ennesimo travestimento del Sistema, suppongo … e poi, tutto esattamente come prima).
E tuttavia io non credo che le cose torneranno come prima, i questo paese: ci vorrà tempo e fatica, ma quello che gli egiziani sono riusciti a fare in questi mesi non glielo toglie più nessuno.
Bravi loro.