La terrazza al decimo piano dell’Odeon è un ottimo posto per sopravvivere a queste giornate di Ramadan di agosto. E’ aperta 24 ore al giorno, c’è la wifi gratis, i camerieri sono cristiani e non ti fanno mancare la birra. Ci girano quasi solo stranieri, che in questa strana estate sono giornalisti – un mucchio di ragazzi free-lance che smaniano per passare in Libia – fotografi e studenti di arabo.

Si diventa esperti di geografia libica, ad ascoltare e a chiacchierare con la gente. Il fotografo americano (Washington Post, e non avrà manco 30 anni) appena tornato con un aereo delle Nazioni Unite ti racconta che c’erano lui e questa spia francese, sul volo, che gli fa: “Good moVning, I’m Francois” ed era vestito con jeans neri, maglietta nera, occhiali neri. “E che lavoro fai?” gli ha chiesto lui, e l’altro: “Lavovo per il govevno fvancese…” “Non l’avrei mai detto“, ha ridacchiato l’americano.

Questa mattina eravamo al Mogamma, io e un amico, a chiedere l’estensione del visto e, mentre lo aspettavo, contemplavo i graffiti dipinti durante l’occupazione sulle pareti esterne, alcuni davvero belli. Volevo fotografarne uno che raffigurava Mubarak in versione burattinaio ma, appena ho tirato fuori il cellulare, sono stata fermata da un gruppo di soldati: “Mamnua, proibito!” “Ma è un muro!” “Mamnua!” Mi ha messo di cattivo umore, questa cosa. Finché c’era Tahrir occupata potevi fotografare qualsiasi cosa, ora ti guardano con sospetto già se respiri. Pure i taxisti sembrano avere recuperato l’autocensura di sempre e magari ti chiedono cosa ne pensi di Tahrir ma, quando gli rigiri la domanda, alzano le spalle e non rispondono. Fino a una settimana fa mi capitava che mi regalassero i cartoncini con le facce dei martiri, ora li becco tutti muti.
Ho chiesto all’amico fotografo che senso avesse che non mi lasciassero fotografare un’immagine che hanno già fotografato in 10.000, un pezzo di muro con un disegno. “Vogliono dimostrare chi è che comanda.“, ha detto lui. “Per sei mesi hanno dovuto tenere il profilo basso, adesso cominciano a rifarsi.
Uscendo dal Mogamma, poi, siamo rimasti un po’ a guardare il solito spettacolo della polizia schierata e delle macchine che ci circolano attorno. Sullo sfondo, il palazzo del partito bruciato.
Hanno tolto un simbolo in cambio della viabilità“, ha detto lui. “Già. Ma forse, quando hai 5000 anni di storia alle spalle, i simboli li getti via più facilmente.“, ho detto io. E siamo venuti qui all’Odeon a toglierci la sete e la voglia di tabacco, appunto.

Da Zeinobia ho letto della morte di uno dei ragazzi feriti alla testa dai mattoni buttati giù da alcuni palazzi di Abassaya, durante la manifestazione di due settimane fa. Aveva 23 anni.
Filippo c’era, a quella manifestazione, e mi ha mostrato i video che ha girato, in cui si vede perfettamente la trappola di sassi e molotov in cui sono caduti i manifestanti. Mi ha promesso di darmeli, li caricherò domani o dopo.
Non aiuta a tornare di buon umore, vedere quei video.

Mentre scrivo sono le sei e mezzo del pomeriggio, la giornata di Ramadan sta finendo e si sentono i muezzin. Tra poco si mangia, le strade qui sotto sono piene di file di tavoli apparecchiati e c’è già gente seduta, immobile davanti alla pagnottina in attesa del via. L’inglesina del tavolo accanto continua a guardare giù verso la strada, in ginocchio sulla sua sedia, e aspetta pure lei il via per chiedersi da mangiare. Sta facendo un suo ramadan laico per capire come ci si sente, dice. Io dico che siamo al decimo piano e non vorrei che cascasse.
Ti sei presa il virus dell’Egitto, eh? Ti si vedono tutti i sintomi“. “Già, non posso negarlo. Ma esiste una cura?” “Se la trovi fammelo sapere,“, le ho detto io. “ché sono quasi vent’anni che la cerco.

Politica a parte, a me continua a sembrare lo stesso di sempre, il Cairo. I giornali diffondono un allarme-sicurezza che pare avere contagiato tutta ‘sta popolazione boccalona ma, arrivando dall’Europa, le lamentele degli egiziani sulla delinquenza fanno semplicemente ridere.
Ieri sera me ne sono andata a sentire un concerto di Naseer Shamma e alla fine, verso l’una di notte, sono andata da sola a mangiare qualcosa. Alle due ero lì che mi facevo la mia lunghissima passeggiata lungo il Nilo e pensavo alla sicurezza, appunto. Una donna sola, alle due di notte, che passeggia per i fatti suoi e nessuno le rompe le balle se non per offrirle un taxi. La solita sensazione di tranquillità che, a parità di situazione, in Europa non ho mai. E meno male che è aumentata la delinquenza, dicono. Pensa se non fosse aumentata.
Pensa a come arrivavano in orario, i treni, quando c’era Mussolini.

L’inglesina continua a guardare giù per vedere se hanno cominciato a mangiare, ed è evidente che non vede l’ora di chiedersi il suo solito pollo. Io mi chiedo un’altra birra: ho visto che i camerieri si stavano preparando l’iftar, poco fa, e sono rimasta meravigliata: ma non erano cristiani, qua? Mi hanno spiegato: “Alcuni. Altri sono musulmani.” Ah, ecco. Li vedevo tutti con la croce tatuata sul polso, quelli che venivano da me, ma è che, appunto, la birra te la portano loro. Divisione dei compiti interreligiosa.

[Edit: l’inglesina è andata a mangiare giù, alla fine. Da allora, è passata più di un’ora. Ha lasciato qualcosa per occupare il tavolo di questo bar: nulla di meno di libro e netbook. Un’ora fa. A proposito della sensazione di “insicurezza” che ti trasmette ‘sta bizzarra città.]