Doveva essere una risposta politica al Venerdì dei Salafiti, ma non si capiva che forma dovesse avere. Prima si era pensato a una manifestazione dei sufi e delle sigle secolari e di sinistra. Poi alcuni avevano chiesto tempo per non sovrapporsi ad altre iniziative, altri – molti – avevano semplicemente osservato che non era il caso di accentuare fratture, di rafforzare la divisione tra laici e religiosi, e insomma, quando il venerdì del 12 agosto è arrivato, noi siamo andati a Tahrir senza sapere bene cosa avremmo trovato, oltre a un iftar in piazza. Abbiamo trovato una festa.

Quelle feste che all’inizio sei un po’ imbarazzata, sei arrivata tra i primi, qualcuno ti ha offerto dei datteri e tu giri per la piazza stringendoli in mano, aspettando che arrivino le sei e mezza della rottura del digiuno per poterli mangiare e, intanto, li senti appiccicosi e non sai cosa fartene, delle mani.

Più esercito che gente, ampi spazi vuoti tra i capannelli, l’aiuola centrale della piazza completamente militarizzata per impedirne la rioccupazione, i cambi della guardia dei soldati pensati apposta per mettere paura: colonne di soldati armati fino ai denti che fendono la folla, l’amica che mi tira via mentre ce li ho quasi addosso, Paolo perso da qualche parte a parlare in arabo con un attivista che è, incidentalmente, l’uomo più bello del mondo (sì, anche l’occhio vuole la sua parte), gente da salutare – al Cairo saluti sempre qualcuno, anche se sei lì da tre giorni – e facce che riconosco per averle pubblicate, su questo stesso blog, a febbraio, quando Julia mi mandava le sue foto dalla Tahrir rivoluzionaria. Scattarle io, le foto, alle stesse facce sorridenti che ho guardato per mesi.

E poi sempre più gente, man mano che faceva buio, e qualche scaramuccia coi soldati, la sensazione che stiano per volare botte, una signora quasi anziana col figlio giovanotto con cui ci fermiamo a parlare e io che le chiedo: “Ma non ha paura a stare qui?“, visto che noi un po’ ne abbiamo, a quel punto, e lei che dice di sì, ma che bisogna rimanere, è troppo importante.

Tentativi di lotta di classe, uomini e donne che spiegano ai soldati che, col poco che guadagnano, dovrebbero scendere e manifestare anche loro, altro che presidiare la piazza. Furgoncini che scaricano vassoi col pollo da distribuire alla gente. Sempre più gente. Bandiere, uno striscione immenso con i colori nazionali. E poi la folla, piazza Tahrir che diventa ancora una volta la sintesi del Cairo, una specie di sandwich fatto a strati: l’esercito al centro, che a sua volta forma un cordone attorno alla polizia. Un fiume di gente attorno e, tra gli uni e gli altri, le macchine, gli autobus, i taxi, il traffico che cerca di scorrere perché la piazza non viene chiusa alla circolazione, incredibilmente, nonostante tutto ciò che succede.

Traffico e manifestanti insieme, traffico e discorsi dal palco, traffico e cortei, traffico e striscioni, traffico e concerto rap, traffico e canti sufi dal palco.

Traffico e derviscio rotante.
Dico davvero. Traffico giù, gente ovunque, i sufi e il derviscio rotante sul palco. E il vecchietto con gli occhi chiusi che balla al ritmo della musica dei sufi, issato sulle spalle di qualcuno, le braccia che sembra che stia per volare.

Gli slogan. “Su la testa, sei egiziano.” La parola che rimbomba ovunque: “Medineyya“. Stato laico. Quell’enorme bandiera portata attorno alla piazza tra centinaia di mani che la vogliono toccare, a formare un tunnel che sovrasta le centinaia di macchine imbottigliate e la gente nelle macchine che ride e tira fuori i telefonini per filmare la scena. Gli occhi scintillanti di Paolo, emozionato. E la corsa liberatoria dietro a quella bandiera non nostra, alla fine, ché un minuto di condivisione ce lo siamo meritato pure noi, dopo tanti anni e tante parole e tanta vita.
Un minuto solo, che questi anni li è valsi tutti.
Uno di quei minuti perfetti e rarissimi, in una vita, quando pensi che l’amore finisce bene.

Dopo – dopo il concerto, dopo tanta festa e tanta gioia respirata e tanto sentire “Medineyya” che rimbombava nella piazza – siamo andati da qualche parte a bere qualcosa, a cercare silenzio per mettere ordine. E ci guardavamo e, da dire, c’era una cosa sola: “Averlo visto per tanti anni prima, Il Cairo. Vederlo adesso, averlo visto stasera. Ma tu lo avresti mai detto? Ma tu ci avresti mai pensato? Ma tu avresti mai osato anche solo sognarla, al Cairo, una serata come questa? Incredibile.

Incredibile.